Mio nonno
Mi ricordo che
mio nonno e mia nonna mi raccontavano sempre un sacco di cose quando
andavo a trovarli in quell'appartamentino al primo piano di Via
Veneto al nove. Ricordi della loro infanzia e ricordi dell'infanzia
del babbo. A distanza ora, di tanti anni dalla loro morte però,
mi assale come un forte presentimento, anzi una assoluta certezza.
Non erano mai loro ad iniziare, non erano loro i primi a scavare nel
passato e a rinvangare la loro gioventù. Ma ero sempre io, con
la mia, da sempre, eccessiva curiosità a farli partire, a
domandare loro quali erano le differenze con le attuali generazioni.
Quali i differenti giochi in cui da bambini si dilettavano rispetto
ai giorni nostri, quali i passatempi e quali i rapporti con i
genitori. La sensazione, ora che sono passati diversi anni, era come
se si vergognassero a parlarne, come se fare raffronti fra quei tempi
e questi, così diversi li mettesse quasi in imbarazzo. Quando
parlavano di quegli anni le parole che si riproponevano con maggiore
frequenza erano miseria,
povertà, fatica.
Solo ora riesco a percepire le
difficoltà che in quel momento quei due vecchietti, che
mostravano almeno quindici anni in più di qella che la loro
carta d'identità svelava, avevano nel denudarsi, nel
raccontare le loro vecchie avventure. Le loro storie. Dovevo
continuamente domandare, spronarli, spingerli. Solo ora mi accorgo di
quanta violenza potrei avergli fatto a quelle due anime oramai
partite per l'ultimo desiderato viaggio. Virgilio con la terza
elementare ed un tappeto di sei e Rina con appena la prima fatta e un
gradino appena sopra il totale analfabetismo, sempre reticenti alla
partenza dei loro viaggi a ritroso, avevano però sempre goduto
di questa enorme differrenza di qualità di vita, della nostra
qualità di vita rispetto alla loro. E una delle frasi più
ricorrenti era " abbiamo patito talmente tanto noi
che voi non dovete fare lo stesso". Provavano una sorta di vergogna,
erano dei reticenti incalliti. Ma questo l'ho capito oramai tardi, o
forse era giusto che non capissi allora. Non lo so. Sembravano
intenti a rimuovere quelle memorie, ogni notte costretti a cercare di
dimenticare quello che io di giorno li tormentavo a ricordare, come
un cane che si morde la coda. Solo ora capisco quanto devo averli
fatti soffrire. Oppure è solo una mia idea. Forse era solo la
difficoltà a cercacre le parole che spesso si perdevano nelle
stanze dei ricordi, spesso buie, senza finestre, che io con una
candela accesa cercavo di rischiarare. In fondo il loro vocabolario
di parole conosciute era ridottissimo e non erano sufficienti a
spiegare a mettere in chiaro le sensazioni, le paure, i sentimenti
dell'epoca, di quei momenti che erano inequivocabilmente faticosi e
tristi. Ecco che allora si sprecavano i silenzi nell'elaborazione
delle frasi che non riuscivano ad uscire come volevano, come
avrebbero voluto, per spiegarmi, per farmi capire. Non lo so e non lo
saprò mai. Ma quello che ho fatto, quello che ho scritto è
anche per aver voluto dar voce a quei silenzi lì.
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