10 giugno 2014

Scrittrici e lettori

Pubblicato su Vibrisse di Giulio Mozzi
vi propongo un interessante racconto.
Dedicato a chi legge, a chi scrive e a chi
vorrebbe tanto farlo.



 

La formazione della scrittrice

 

Scrivo per necessità. Scrivo perché la parola scritta è stata per me un modo importante per capire e per esprimere quello che sentivo, vedevo e leggevo nella realtà, questo in sintesi, molto in sintesi.

Ero da bambina una timida speciale, patologicamente timida. Non mi andava di parlare, soprattutto non mi riusciva, se mi rivolgevano una domanda mi facevo rossa, balbettavo. Spesso ero silenziosa e malinconica, e ciò infastidiva i miei familiari, li metteva in imbarazzo, rispondi alla signora, mi dicevano, ma io muta non cedevo, ritenevo che mi rivolgessero domande alle quali non sapevo dare una risposta, gli adulti lo fanno spesso, mentre spesso i bambini si aspettano di sentirsi fare domande opportune e non del tutto idiote. Ti piace la scuola?, li mangi gli spinaci?, fai la brava? Avrei dovuto rispondere mentendo, e allora me ne stavo zitta, è fatta così, è tanto timida, ma è brava, si scusava mia madre.
Quel ma è brava mi infastidiva, mi faceva salire una rabbia al punto tale che avrei voluto farglielo rimangiare in qualche modo, ma non sapevo come. Non c’era modo di spiegarglielo, perché non trovavo le parole, le cercavo ma mi si asciugavano in gola, sulla lingua giungevano secche, polverizzate, sputavo quel che rimaneva in ritardo, nel momento sbagliato, quando avevano perso di significato.
Non so se sia per via del concetto di tempo che non mi era chiaro, ma fatto sta che dentro di me regnava una lentezza, ero sempre in ritardo ogni volta che dovevo spiegare, parlare, chiedere.


Cominciai invece a leggere molto presto, vedevo mia nonna passare ore sui libri nel pomeriggio, si trasferiva accanto alla finestra verso il tramonto per non accendere la luce, ché si consuma, diceva. Ricordo che la guardavo e le invidiavo quel suo mondo in cui si rifugiava, lei con i suoi libri strapazzati, le pagine sottolineate e con le orecchie. Fu mia nonna a insegnarmi, e io imparavo presto, tanto che fu gridato al miracolo quando a cinque anni fui in grado di leggere qualsiasi cosa senza esitazioni. Mi sentivo importante e felice di poter accedere a quel mondo, e imparai a scrivere. Le parole scritte mi permettevano quel tempo a me indispensabile per spiegare, per esprimermi.
Quando arrivai in prima elementare la maestra insegnava a leggere le vocali alla lavagna. Bisognava riempire pagine di quaderno, due pagine per la a, due pagine per la e, e così via. Mi annoiavo, mi distraevo, mi guardavo in giro, osservavo il volto serio e talora abbattuto dei miei compagni, fantasticavo storie su e con loro. Lei se ne accorse e mi mandò dietro la lavagna, in punizione per una settimana!, strillò. Sento ancora lo sguardo severo di quella vecchia maestra su di me mentre percorro lo spazio tra me e la cattedra, avevo provato a guardarla negli occhi, sperando di riuscire a trovare le parole per spiegare, ma lei strillò ancora più forte, abbassa la testa!, gridò, e io lo feci. Ci rimasi quasi una settimana. Stavo in piedi per tutte le quattro ore, ogni mattina. Ogni tanto piangevo, in silenzio, ché nessuno mi sentisse e mi vedesse. A casa non osavo dire nulla, temevo l’intransigenza di mio padre, ma ancor più paventavo che mia madre andasse a scusarsi con quell’orribile vecchia. E così ogni mattina entravo in classe e andavo dietro la lavagna.
Poi un giorno la salvezza. Era una supplente graziosa e bionda, l’orribile vecchia si era ammalata. Entrando in classe mi aveva trovata in piedi dietro la lavagna e mi aveva domandato cosa ci facessi lì. Io non osavo parlare, temevo che qualsiasi cosa avessi detto sarebbe stata quella sbagliata, ma uno dei compagni lo disse al posto mio, è sempre distratta, disse. La supplente mi chiese se fosse vero, io feci sì con la testa. La supplente mi mandò al posto, mi guardava incuriosita. Perché non vuoi leggere?, mi domandò a bruciapelo. Io so leggere. Sentii le parole che mi uscivano dalla bocca prima che io avessi pensato alla risposta. Uscirono tutte d’un fiato, e me ne pentii subito, perché la supplente fece un sorrisetto ironico e mi chiese di leggerle qualcosa, dunque. Io aprii il libro e lessi. Lei fece un altro tipo di sorriso, stavolta incredulo. Mi chiese di leggere un’altra pagina, io lo feci. Mi portò un altro libro, lo aprì a caso e disse, leggi, e io ubbidii.
Venne fuori tutto, dei giorni passati dietro la lavagna, del fatto che io sapessi leggere, a scuola mi fecero molti complimenti, il preside, la supplente e perfino l’orribile vecchia sadica al suo ritorno (me la fece pagare, l’orribile vecchia, ma questa è un’altra storia).
A casa mio padre si arrabbiò perché non avevo reagito e mia madre andò a scusarsi con la supplente.

Ero magretta, da bambina, e molto anemica, mi facevano tutti i giorni delle orribili e roventi punture. E poi c’era quella malattia, che ogni tanto mi portava via dal mondo e mi spaccava il cuore, lo stomaco, la testa, il corpo tutto. Nessuno la chiamava per nome, come fosse una cosa brutta, da non dire. Si chiamava epilessia, quella cosa che nessuno nominava, e mi faceva male, mi sconquassava, esplodevo come avessi una bomba dentro, nella pancia e nel cervello. E avevo paura, paura di tutto.
Non riuscivo a spiegare mai nulla di quello che sentivo, tantomeno delle mie paure che gli altri non capivano. Non riuscivo mai a dire alle persone ciò che avrei voluto dire, eppure ne avevo un sacco di cose, da dire. E allora succedeva così, che non le dicevo affatto ma le scrivevo. Cominciai molto presto, scrivevo decine di lettere a tutti coloro che facevano parte della mia vita, lettere cariche d’amore, di richieste, di sfogo, lettere di rabbia, lettere di ogni tipo.
La lettura innanzitutto e la scrittura poi sono state per me un rifugio e un modo per camminare allo stesso tempo. Scrivevo per bisogno, ma anche per rappresentare quella realtà da cui spesso tentavo di fuggire. Leggevo e scrivevo per necessità di fuga e di ritorno. I libri mi insegnavano molte cose e questo lo capivo, non mi hanno tradito mai.

Ho incontrato molti libri e molti autori che mi hanno aiutato a orientarmi. Una delle prime cose che ho capito è che val la pena di leggere di tutto, così capisci quello che non ti interessa e aggiusti il tiro, è importante anche imparare a leggere.
Petrarca ha detto che i libri ci danno un diletto che va in profondità, e credo sia questo il punto, leggendo ti metti davanti a uno specchio, sei tu in quella storia, in alcuni aspetti dei personaggi ti riconosci, anche in quelli che non ti piacciono, quando lo capisci stai crescendo.
I primi autori furono la Alcott, la lessi in un paio di giorni, avidamente, volevo sapere come sarebbe andata a finire quella giovane scrittrice in erba, l’intramontabile Jo. Poi lessi Twain, rapita dall’avventura, Le avventure di Tom Sawyer e Le avventure di Huckleberry Finn, ricordo che quest’ultimo mi piacque più del primo. Scoprii la poesia della Dickinson, mi innamorai della Austen e delle sorelle Brontë.
Lessi Harper Lee. Me lo regalarono dopo in seconda media, il romanzo Il buio oltre la siepe, che mi colpì per il senso di tragedia che lo pervadeva, e per la forza che aveva Scout nell’affrontare l’ignoto, per le domande che si faceva. Quel romanzo mi suggeriva di fare i conti con la mia paura.

Nell’adolescenza arrivò Rilke, e un giorno trovai tra gli altri suoi un libro sottile, una delle sue opere in prosa. Era un libro di mia madre. Si trattava di Lettere a un giovane poeta, ricordo di averlo divorato, sentivo che parlava a me, proprio a me, erano le parole che mi aiutavano a trovare fiducia e senso ogni volta che li perdevo:
Noi non possiamo dire chi sia entrato, forse non lo sapremo mai, ma molti indizi suggeriscono che il futuro entra in noi in questa maniera per trasformarsi in noi, molto prima che accada.(…)
Il futuro sta fermo, caro signor Kappus, ma noi ci muoviamo nello spazio infinito.
Rilke medicava la mia solitudine, se ne prendeva cura e la cullava, dando un significato a tutto.
Penetrare in se stessi e per ore non incontrare nessuno. Essere soli come s’era soli da bambini, quando gli adulti andavano attorno, impigliati in cose che sembrano importanti e grandi, perché i grandi apparivano così affaccendati, e nulla si comprendeva del loro agire e grandi. (…)
Pericolose e maligne sono quelle tristezze soltanto, che si portano tra la gente, per soverchiarle col rumore. (…)
Le opere di Shakespeare erano invece di mio padre. Diventarono il mio pane quotidiano. Si trattava di un’edizione preziosa, la sfogliavo con riguardo e ricordo con che entusiasmo scoprivo la semplicità e la complessità dell’animo umano, riflettevo sulle origini del male e del bene, sull’umana tragedia e commedia insieme, sui suoi personaggi densi di sentimento e di incertezze e che spesso tali rimangono, poiché non ci sono risposte certe e assolute. Mia nonna mi fece scoprire la Ginzburg e la Morante, e dopo vennero Pavese, Moravia e Pasolini, e i grandi scrittori americani, Anderson e Faulkner, Flannery O’Connor.
Se i libri mi proteggevano creando una tana tutta mia, mi davano anche la forza di uscire dal mio guscio a incontrare il mondo. Dalla lettura è nata la mia osservazione degli altri, l’ascolto, la passione e la curiosità che ho per le persone. I libri mi hanno spinto a fare dei viaggi in modo più intimo, di recarmi in luoghi dove forse non sarei andata, chissà, o magari con tutt’altro spirito.
L’incontro con Laura Bosio è stato importante, decisivo, per il modo che ha lei nell’avvicinare la scrittura, che è lavoro duro e complesso, lascia spesso dubbiosi ma più consapevoli, ma il dubbio può diventare il nostro migliore alleato, come ci ricorda Rilke. Laura Bosio è per me la maestra che mi ha fatto capire ancora di più cosa significasse per me scrivere, colei che mi ha dato forza ed entusiasmo, che mi ha insegnato cosa sia davvero la pagina (quante volte ne abbiamo parlato, quante volte l’ho ascoltata, attenta e felice), come raggiungere il lettore, quando occorre saper rinunciare a qualcosa e quando invece si deve perseguire uno scopo con decisione, per trovare le parole giuste e tradurre, interpretare, inventare la propria personale esperienza.
Adesso le mie letture sono diverse, certi classici dell’adolescenza sono tornata a leggerli perché mi hanno insegnato molto e continuano a suggerirmi nuovi incanti, nuove strade da percorrere.
Se da bambina scrivevo per la paura di dire, ora qualcosa è cambiato, scrivo per cercare e scrivo perché ogni volta che lo faccio succede qualcosa di straordinario nella mia vita. Scrivo per mettere ordine ma anche per buttare tutto all’aria, perché per me la scrittura è una continua ricerca. E spesso racconto le storie di chi si sente solo o diverso.
[Cioè, alla fine, scrivo sempre un po’ di me.]

La mia formazione di scrittrice? Penso sempre di essere all’inizio.
Avida di buoni maestri e di consigli, vado avanti.

Claudia Priano

 

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