Volentieri pubblico questo articolo di Michela Murgia, pubblicato sul quotidiano La Stampa e che io ho ascoltato direttamente quando l'abbiamo incontrata a Poggibonsi. Una serata decisamente interessante.
Questo l'ho scritto oggi su La Stampa su richiesta di Mario Calabresi, che sta mantenendo la sua parola di aprire spazi di confronto sul tema di una deontologia del linguaggio sui femminicidi.
L'uomo è cacciatore.
È da quando ho le orecchie per sentire che questo modo di dire ritorna inesorabile in ogni discorso in cui si voglia giustificare in un uomo l'attitudine all'incostanza sentimentale, l'insistenza ottusa nel corteggiamento o la frustrazione di chi si è visto sfuggire di mano la preda perché lei, rompendo le regole del gioco di ruolo, gli ha imposto un rifiuto netto e non previsto. Lo dicono i padri ai figli e le madri alle figlie; se lo ripetono tra loro gli amici ammiccanti con una pacca sulle spalle e lo mormorano le donne alle amiche con un'alzata di occhi al cielo, tutti con la stessa leggerezza: “he, che ci vuoi fare... L'uomo è cacciatore e la donna è preda”.
Magari dopo averla detta sorridono.
Non realizzano di avere dentro alla testa l'associazione micidiale tra seduzione e morte.
Fanno finta di non ricordarsi che il cacciatore la preda la insegue per ucciderla.
È da quando ho le orecchie per sentire che questo modo di dire ritorna inesorabile in ogni discorso in cui si voglia giustificare in un uomo l'attitudine all'incostanza sentimentale, l'insistenza ottusa nel corteggiamento o la frustrazione di chi si è visto sfuggire di mano la preda perché lei, rompendo le regole del gioco di ruolo, gli ha imposto un rifiuto netto e non previsto. Lo dicono i padri ai figli e le madri alle figlie; se lo ripetono tra loro gli amici ammiccanti con una pacca sulle spalle e lo mormorano le donne alle amiche con un'alzata di occhi al cielo, tutti con la stessa leggerezza: “he, che ci vuoi fare... L'uomo è cacciatore e la donna è preda”.
Magari dopo averla detta sorridono.
Non realizzano di avere dentro alla testa l'associazione micidiale tra seduzione e morte.
Fanno finta di non ricordarsi che il cacciatore la preda la insegue per ucciderla.
Le donne in quella frase ascoltano una storia dove si dice loro che essere desiderate implica il rischio di essere uccise.
Ogni volta che quella frase viene ripetuta, si consolida inconsapevolmente in chi ascolta la convinzione che quello che viene messo in scena a parole sia non solo accettabile, ma faccia addirittura parte della natura della cose: l'uomo insegue, la donna scappa, l'uomo spara, la donna muore, amico: che ci vuoi fare? Il linguaggio comune è pieno di espressioni simili. Chi le usa non pensa ai loro sottotesti, ma questi passano anche se chi li veicola non ne è perfettamente consapevole, perché le parole hanno un grande potere: confermano immaginari, consolidano visioni e generano realtà.
Ogni volta che quella frase viene ripetuta, si consolida inconsapevolmente in chi ascolta la convinzione che quello che viene messo in scena a parole sia non solo accettabile, ma faccia addirittura parte della natura della cose: l'uomo insegue, la donna scappa, l'uomo spara, la donna muore, amico: che ci vuoi fare? Il linguaggio comune è pieno di espressioni simili. Chi le usa non pensa ai loro sottotesti, ma questi passano anche se chi li veicola non ne è perfettamente consapevole, perché le parole hanno un grande potere: confermano immaginari, consolidano visioni e generano realtà.
Il numero di donne uccise
dagli uomini ogni anno in questo paese parla chiaro: per quanto si
cerchi ancora di rubricarli come casi singoli di follia circoscritta, i
femminicidi appaiono sempre più chiaramente come un fenomeno culturale,
la radiografia di una società maschilista in crisi dove il prezzo della
vita delle donne è messo in conto come danno collaterale alla perdita
degli equilibri di ruolo. In questo processo di minimizzazione le parole
che usiamo per raccontare gli uomini, le donne e le loro relazioni
hanno un peso enorme e ancora troppo poco considerato da chi pratica
parola pubblica e ha la responsabilità di renderne conto.
Così negli ultimi anni è
accaduto che si siano mobilitate associazioni contro la pubblicità
sessista, che le donne si siano organizzate anche in piazza per chiedere
maggiore rispetto dalle istituzioni e che si sia alzata la voce per
pretendere maggiori investimenti verso i centri di accoglienza e
supporto contro la violenza. Ma in questo moto evidente di
sensibilizzazione è accaduto anche che i professionisti della parola
– giornalisti e giornaliste, professionisti televisivi e opinionisti a
tutti i livelli mediatici – poche volte abbiano sentito altrettanto
forte il desiderio di riflettere sul linguaggio che racconta la
relazione tra i sessi e sulle sue conseguenze.
Il modo in cui i
quotidiani danno le notizie dei femminicidi è un esempio evidente di
normalizzazione della narrazione violenta che riguarda i rapporti tra
uomini/cacciatori e donne/prede. Delitto Passionale, Violenza Familiare, Dramma della Gelosia, Raptus di Follia: sono tutte espressioni che ripetono e amplificano l'idea che amore e morte siano apparentati, che familiare
sia un complemento di specificazione della violenza, che il sentirsi
traditi o deprivati la possa giustificare e soprattutto che gli esiti
estremi, quelli che lasciano le donne senza vita sui pavimenti delle
loro stesse case, siano gesti fuori dalla ragione, colpe senza colpevoli, buchi neri dove far svanire ogni tentativo di lettura più complessa.
È necessario che i narratori delle trame pubbliche si fermino e si riprendano la responsabilità delle parole.
Occorre fare insieme la fatica di confrontarsi per provare a rivedere
le storie comuni che tutti abbiamo contribuito a consolidare; solo da
una nostra differente volontà narrativa può scaturire la possibilità che
il futuro delle donne sia un'altra storia.
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